In materia di marchi, spesso si rinviene la necessità di tutela dell’impresa (e, della propria azienda) rispetto a condotte di competitors più o meno consapevoli, volte a creare confusione nei destinatari dei prodotti presenti sul mercato.
Tralasciando la
disanima tra le varie tipologie definitorie dei marchi (coinvolgenti la
consequenziale maggiore o minore tutela proprio in materia di confondibilità del
caso asseconda che si tratti di marchi cosiddetti “forti” o “deboli”), per
inquadrare l’istituto in parola, non si può prescindere dal dato normativo di
riferimento.
Tale è l’articolo 2598
1) del codice civile, il quale definendo le fattispecie riconducibili nell’alveo
della concorrenza sleale, rintraccia questa in chiunque: “usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o
con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i
prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a
creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente”.
Di pronta desumibilità
appare l’ambito di applicabilità della norma in parola, rintracciando quali
naturali destinatari tutti i soggetti che si trovino o si possano trovare in un
rapporto di concorrenza economica (ergo¸tutti gli imprenditori operanti in
un dato mercato).
Delineato il campo di
applicabilità, opportuno appare definire con chiarezza e puntualità gli
elementi su cui il giudizio di confondibilità verte; chiarificatore è stato l’intervento
della Cassazione con cui si ha ritenuto che “in attuazione della Direttiva
CEE n. 89/104, la tutela del marchio comprende non soltanto il rischio di
confusione, determinato dalla identità o dalla somiglianza dei segni
utilizzati per contrassegnare prodotti identici o affini, ma anche quello
relativo alla semplice associazione fra i due segni, tale da poter indurre
in errore il pubblico circa la sussistenza di un particolare legame
commerciale o di gruppo tra l'impresa terza ed il titolare del marchio”
(così Cassazione civile, sentenza n. 3639 del 13 febbraio 2009).
E’ di tutta evidenza l’ampliezza
dei confini della tutela in parola, a maggior ragione laddove è stato affermato
che il rischio di confondere i consumatori nel riconoscimento del marchio
ricercato deve essere valutato “globalmente, prendendo in considerazione
tutti i fattori pertinenti del caso di specie, con una certa interdipendenza
fra i fattori che entrano in considerazione e in particolare la somiglianza dei
marchi e quella dei prodotti”.
Riassumendo, appare di
poter dire che la tutela non ha limiti dal punto di vista spaziale, a tal punto
da potersi estendere worldwide ed è
applicabile andando ad analizzare caso per caso il reale conflitto
riconoscitivo provocato dall’utilizzo di marchi facilmente confondibili o
riconducibili al titolare della primogenia.
Le condotte che meglio
si attanagliano alla tutela in parola, sono sicuramente relative all’ utilizzo
di marchi idonei a confondere il consumatore nell’individuazione di quelli
effettivamente ricercati e legittimamente usati da altri imprenditori; ed
ancora, una imitazione abbastanza fedele dei prodotti del competitor, nonché, infine, gli atti o i fatti idonei a creare
confusione con i prodotti e servizi resi da terzi.
Consequenzialmente, non
vi è dubbio alcuno che non solo la mera confusione di marchi può essere oggetto
della tutela in parola, dovendosì altresì analizzare la capacità dei predetti
atti e fatti a creare effettivamente uno scambio tra prodotti e servizi simili
e il connesso pregiudizio discendente dal procurato misunderstanding.
Desumibile pertanto
diviene il bene giuridico oggetto di tutela, dovendosi rintracciare questi da
un canto nell’interesse imprenditoriale a non subire pregiudizi per cause
altrui rispetto al conseguimento del proprio profitto; d’altro canto e
parimenti rilevante appare la tutela così apprestata in favore dei consumatori
finali onde evitare che possano incorrere in errore, garantendo sempre agli
stessi un mercato leale, trasparente e competitivo.
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